A ciascuno il suo spread
by Marco Giani
Nell’estate-autunno del 2011 un nuovo spauracchio dominò la scena politica del Bel Paese; lo spread, ovvero il “differenziale di rendimento” tra il BTP italiano a 10 anni e l’equivalente Bund tedesco, si stava ampliando in maniera alquanto preoccupante, con ripercussioni potenzialmente nefaste per la tenuta dei conti pubblici italiani.
Nell’immaginario collettivo, lo spread misura quindi il grado di affidabilità dello Stato italiano agli occhi degli investitori che finanziano il nostro debito pubblico; più tale differenziale si riduce, minore sarà il tasso di interesse da corrispondere ai sottoscrittori delle emissioni obbligazionarie italiane.
In realtà, in funzione del contesto nel quale è utilizzato, il termine spread può essere reso con altri traducenti. Relativamente a un mutuo, lo spread indica il “margine di guadagno” che la banca aggiunge a un tasso di riferimento, come l’Euribor, per ottenere il tasso annuale nominale (TAN = Euribor + Spread).
Con riferimento alla redditività bancaria, l’interest rate spread identifica il “margine di interesse”, ovvero la differenza tra interessi attivi (prestiti concessi ai clienti) e passivi (depositi e conti correnti dei clienti). In seguito alla grande crisi finanziaria del 2008, in Italia tale voce di bilancio legata all’attività tradizionale degli istituti di credito ha subito un doppio contraccolpo, generato in primis da un contesto di tassi di interesse prossimi allo zero e successivamente dal preoccupante aumento dei prestiti in sofferenza.
Infine, in ambito finanziario il bid-ask spread corrisponde al “differenziale denaro-lettera”, lo scarto tra il prezzo di acquisto (denaro) e il prezzo di vendita (lettera) di uno strumento finanziario. Per gli amanti della Borsa e delle sue opzioni più o meno “esotiche”, lo spread è conosciuto anche nella sua accezione di contratto a premio, nello specifico “contratto a doppia opzione”.
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